Lo scorso 7 ottobre il Medio Oriente è stato sconvolto dall’attacco a sorpresa contro Israele da parte di Hamas. Un’operazione su vasta scala, iniziata con il lancio di migliaia di missili che hanno raggiunto anche Gerusalemme e Tel Aviv, cui ha fatto seguito un’incursione all’interno dei confini meridionali di Israele. Almeno 1.400 civili israeliani hanno perso la vita nel corso dell’attacco – tra loro circa 260 giovani che partecipavano a un evento musicale nel sud del paese – centinaia sono rimasti feriti e oltre 200 sono stati rapidi da Hamas e dai gruppi legati alla Jihad islamica. Un avvenimento senza precedenti nella storia del paese, le cui modalità e la cui ferocia hanno scosso la popolazione israeliana e gran parte dell’opinione pubblica mondiale.
Un evento, soprattutto, che ha rappresentato un duro colpo all’immagine dei servizi di intelligence israeliani – in parte paragonabile agli eventi che nell’ottobre 1973 videro Israele impreparato di fronte all’offensiva guidata dall’Egitto che diede il via alla Guerra dello Yom Kippur – e che ha minato la credibilità del governo del paese. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, un politico che ha sempre centrato il proprio messaggio politico sul tema della “sicurezza”, ha infatti visto la propria immagine – peraltro già consumata da alcuni scandali personali e da scelte politiche molto divisive come la controversa riforma della giustizia – fortemente intaccata dagli eventi del 7 ottobre e molto difficilmente, superata la fase acuta della crisi, potrà tornare a proporre la propria candidatura alla leadership del paese, nonostante la durissima posizione assunta a seguito dell’offensiva terroristica di Hamas.
Poche ore dopo gli attacchi Netanyahu ha annunciato, infatti, che il paese era in “stato di guerra”, aggiungendo che la risposta israeliana “cambierà il Medio Oriente”. In una fase così critica il primo ministro israeliano è stato tuttavia costretto a modificare la compagine di governo, con l’ingresso del partito centrista Kahol Lavan, guidato da Benny Gantz – un comandante delle Forze di difesa israeliane in congedo, già ministro della Difesa e nuovo membro dell’esecutivo. Altre forze di opposizione hanno espresso la loro contrarietà a entrare a far parte di un governo di unità nazionale a meno che questo non escluda i partiti di estrema destra che hanno permesso a Netanyahu di formare un governo lo scorso dicembre e che hanno favorito delle riforme estremamente divisive come quella del sistema giudiziario – una scelta che a molti può apparire sorprendente visto lo stato di emergenza in cui versa il paese, ma che dimostra la grande vitalità della democrazia israeliana che presenta forti contraddizioni politiche e sociali, ma in cui il dissenso può essere espresso anche in situazioni di emergenza.
Sul piano militare Israele ha invece reagito agli attacchi lanciando una vasta campagna di bombardamenti e mobilitando circa 360.000 riservisti, il tutto nella prospettiva di un’invasione di terra della Striscia di Gaza. Israele, a partire dal 9 ottobre, ha inoltre inasprito le condizioni dell’embargo già in vigore nei confronti della Striscia di Gaza, tagliando le forniture di acqua, elettricità, carburante e cibo, imponendo in tal modo un assedio di fatto contro un territorio di circa 365 km quadrati in cui abitano più di due milioni di persone – un’iniziativa che secondo alcuni rappresentanti delle Nazioni unite potrebbe essere qualificata addirittura come un crimine di guerra. Le autorità israeliane hanno inoltre intimato a circa un milione di abitanti della zona nord della Striscia di Gaza di abbandonare le loro residenze in vista dell’invasione militare – e anche questa controversa decisione è stata condannata dalle Nazioni unite e da altri attori e istituzioni internazionali come una grave imposizione contraria al diritto internazionale umanitario.
Il conflitto, iniziato con gli attacchi di Hamas e proseguito con la durissima reazione di Israele, rischia di portare a un’escalation a livello regionale. Israele ha infatti rafforzato la propria presenza militare nella zona settentrionale del paese e condotto bombardamenti nel sud del Libano a seguito del lancio di missili da parte delle milizie di Hezbollah.
Al momento in cui questo articolo viene scritto, la guerra tra Hamas e Israele sembra essere intrappolata in una sorta di vicolo cieco strategico – una situazione in cui gli attori del conflitto possono continuare ad usare la violenza, ma non hanno speranze di farlo in maniera risolutiva. “La guerra”, scriveva il generale Karl von Clausewitz nel Diciannovesimo secolo, “è la continuazione della politica con altri mezzi”. L’uso della forza militare deve essere espressione di una strategia che si propone di raggiungere razionalmente un obiettivo politico. Se si esaminano i possibili obiettivi politici degli attori implicati nell’attuale conflitto in Medio Oriente, tuttavia, non sembra possibile identificarne di compatibili con le azioni militari che si stanno sviluppando.
Il 7 ottobre Hamas ha lanciato un attacco terroristico criminale e immorale, ma al tempo non risolutivo sul piano prettamente militare. Hamas non può infatti raggiungere l’obiettivo di distruggere Israele. Il suo apparato militare conta tra le 30.000 e le 40.000 unità, di cui almeno 15.000 immediatamente impiegabili a livello operativo, un sistema di tunnel sotto la striscia di Gaza e un arsenale di missili rudimentali. Queste forze, per quanto non trascurabili, non possono affrontare apertamente le Forze di difesa israeliane, che contano 170.000 unità regolari a cui vanno aggiunti i circa 360.000 riservisti recentemente mobilitati, un personale militare altamente addestrato e dotato degli equipaggiamenti più all’avanguardia dal punto di vista tecnologico, divisioni corazzate, una delle aviazioni più preparate al mondo (dotata anche degli aerei F-35 di ultima generazione) e di un arsenale atomico (seppur non ufficialmente dichiarato).
L’esistenza di Israele non è dunque minacciata da Hamas sul piano puramente militare. Se l’obiettivo di questa organizzazione era – come per il presidente Egiziano Anwar al-Sadat nel 1973 – convincere Israele a negoziare, magari per porre fine all’embargo contro Gaza, la scelta di trucidare barbaramente dei civili innocenti è stata chiaramente inadeguata anche dal punto di vista strategico. Un ulteriore obiettivo politico per Hamas potrebbe essere quello di assumere un ruolo dominante nella causa nazionale palestinese. L’Autorità nazionale palestinese è presieduta da Fatah, la forza politica fondata da Yasser Arafat e attualmente guidata da Mahmoud Abbas. Quest’ultimo, a 87 anni, sembra destinato ad uscire dalla scena politica nel prossimo futuro e l’offensiva del 7 ottobre potrebbe essere un modo per Hamas di rafforzare la propria immagine a spese di Fatah. Il prezzo di questo tentativo sembra tuttavia piuttosto alto rispetto ai potenziali guadagni. Appare infatti chiaro che il governo israeliano è ormai determinato a eradicare Hamas, e anche se molti governi – anche alleati di Israele – stanno giustamente chiedendo di evitare una risposta militare indiscriminata, l’obiettivo di far sì che Hamas non sia più in grado di compiere attacchi terroristici come quello del 7 ottobre non sembra in discussione. Fra l’altro la tragica aggressione ha reso molto più probabile un’occupazione – parziale o totale – di Gaza da parte di Israele, e non sembra dunque destinata a favorire progressi nel processo che deve portare alla fine dell’occupazione dei territori palestinesi.
Anche le scelte militari adottate dal governo di Netanyahu, tuttavia, non sembrano molto coerenti o adeguate all’obiettivo di neutralizzare la minaccia terroristica che pesa su Israele. Decisioni come quella di bombardare indiscriminatamente il territorio della Striscia di Gaza, di inasprire l’embargo fino a creare di fatto uno stato di assedio o di intimare a un milione di palestinesi innocenti di abbandonare le proprie residenze (senza peraltro sapere se e quando questi potranno riprenderne possesso) non appaiono destinate ad indebolire politicamente o militarmente Hamas, che può utilizzare il sistema di tunnel per proteggere i propri miliziani e sfruttare le vittime innocenti di questo tipo di rappresaglia a fini propagandistici.
La prospettiva di un’invasione terrestre della Striscia di Gaza da parte delle forze israeliane pone ugualmente una serie di interrogativi preoccupanti e potrebbe portare a una situazione paragonabile all’esperienza statunitense in Iraq tra il 2003 e il 2011. L’operazione dovrebbe portare allo schieramento di migliaia di soldati israeliani nella parte settentrionale o nella totalità del territorio di della Striscia di Gaza per un’azione di contro-insurrezione in un contesto urbano molto ostile (fra l’altro reso ancora più ostico dalla distruzione causata dai bombardamenti), con regole di ingaggio molto poco restrittive (e quindi con il forte rischio di danni collaterali e vittime civili) per una durata che secondo alcune stime potrebbe essere di almeno 18 mesi. È ragionevole ritenere che questo sia il tipo di guerra che esalta al massimo le capacità militari di Hamas, i cui guerriglieri si troverebbero a combattere una guerra difensiva in un ambiente che conoscono meglio dei loro avversari e in cui il valore della superiorità tecnologica israeliana è fortemente ridotto. Hamas potrebbe infliggere serie perdite umane a Israele e potrebbe inoltre utilizzare i civili di Gaza e gli ostaggi come deterrente, minacciando di uccidere gli ostaggi di nazionalità straniera per creare pressione politica internazionale contro Israele. L’offensiva terrestre potrebbe inoltre favorire un’escalation del conflitto con il coinvolgimento di Hezbollah nel nord di Israele e potrebbe destabilizzare sia la Cisgiordania che molti Stati arabi – inclusi soprattutto quelli che, come già notato, hanno normalizzato di recente le loro relazioni con Israele – e inasprire la minaccia terroristica in Europa.
L’attuale conflitto appare ancor più preoccupante se si considerano gli effetti che esso sta già avendo sugli equilibri regionali e internazionali. La dura reazione di Israele nei confronti di Gaza a seguito dell’attacco condotto da Hamas ha già prodotto, in tal senso, i primi pesanti effetti, come l’interruzione del dialogo tra Tel Aviv e Riad che doveva portare al reciproco riconoscimento diplomatico, così come il raffreddamento dei rapporti tra Israle e i paesi arabi che avevano sottoscritto gli Accordi di Abramo. Anche il processo di riavvicinamento con la Turchia di Erdoğan sembra fortemente compromesso alla luce dei recenti eventi, nonostante il presidente turco negli ultimi anni avesse tentato un significativo riavvicinamento a Israele, proprio in seguito alla firma degli Accordi di Abramo che rischiavano di lasciare isolata Ankara nella regione. Un’operazione di terra potrebbe infine portare a un più diretto coinvolgimento di Teheran nel conflitto, ipotesi assolutamente da scongiurare per evitare che l’intera regione sprofondi nel caos. La dura campagna di bombardamenti che Israele sta conducendo su Gaza, il probabile intervento di terra e il blocco totale della Striscia hanno senza dubbio avuto l’effetto di ricompattare i paesi musulmani a fianco della causa palestinese.
La posizione assunta dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, ritenuta nei paesi musulmani – così come in importanti settori dell’opinione pubblica occidentale – troppo sbilanciata a favore di Israele rischia quindi di allargare la spaccatura tra Occidente e paesi musulmani, che sempre più guardano a Mosca e a Pechino. Queste ultime appoggiano con decisione la richiesta proveniente dal mondo musulmano relativa alla nascita di uno Stato palestinese indipendente, entro i confini del 1967 e con Gerusalemme Est capitale, e ciò permette loro di creare un asse sempre più forte con il mondo musulmano e più in generale con il cosiddetto sud del mondo. Il rischio, per gli Stati Uniti e l’Unione europea, è quello di ritrovarsi contro una grande fetta di mondo, quello stesso mondo con cui, soprattutto i paesi dell’Ue, non possono permettersi di non dialogare, per ragioni economiche, energetiche, politiche e culturali.
In base a queste osservazioni, sembra evidente che il conflitto generato dall’aggressione terrorista contro Israele del 7 ottobre sta creando delle ramificazioni e delle possibili conseguenze che non possono essere gestite esclusivamente dal governo israeliano, e richiederebbero una forma di coinvolgimento internazionale per trovare una soluzione che sia in grado di neutralizzare il rischio di catastrofi umanitarie, massicce violazioni dei diritti umani e terremoti geopolitici.
Per questa ragione abbiamo deciso di dedicare un Focus Osmed alle posizioni assunte dai vari attori globali e regionali, al fine di comprendere meglio la posizione assunta dai diversi paesi che hanno interessi nella regione e come essa possa modificare gli equilibri mediorientali e internazionali.
Francesco Anghelone, Diego Pagliarulo